Nell´estate del 2015 fece scandalo, in una chiesa di Roma, il funerale sfarzoso del “padrino” del clan Casamonica. Sollecitato su Facebook, formulai qualche considerazione, che riporto nuovamente qui. Forse quelle riflessioni hanno ancora attualità.
Mi esprimo sulla rilevanza della questione per la chiesa, fermo restando che il problema principale resta quello dello Stato, che permette ad un clan non solo di agire e di “occupare” una città, ma poi anche di ostentare.
Per la chiesa i mafiosi sono scomunicati, dunque quel funerale non andava fatto. Non è molto credibile che il parroco non sapesse. Si può comprendere eventualmente la sua paura, ma allora doveva intervenire il Vicariato e porre un veto dall´alto (e, così facendo, proteggerlo). Né, anche salvando il principio che la pietà copre tutto – e dunque volendo fare il funerale – andavano permesse ostentazioni simboliche, almeno nell´edificio della chiesa o sul territorio del sagrato. Inoltre, credo che l´influenza che si può esercitare sugli “spazi pubblici” può arrivare anche a limitare il resto (carro, elicotteri, musiche etc…). Probabilmente anche la chiesa – così come le autorità pubbliche – si sono trovate spiazzate da un fenomeno inaspettato, Ma in ogni caso non è tollerabile.
Ovviamente poi il confronto con il caso di Welby stride molto a livello simbolico (lo stesso edificio!). In quel caso, la questione fu la piena consapevolezza di Welby di compiere un atto condannato dalla chiesa – e la rilevanza pubblica nel frattempo assunta dal caso e quindi dal suo gesto – così che un funerale religioso sarebbe potuto apparire come una legittimazione ufficiale.
Eppure, proprio rispetto a quanto si potrebbe discutere relativamente all´immagine sulla messa nel centro commerciale aperto di domenica; ossia, il problema di come la chiesa può e magari deve “contaminarsi” con il mondo e con pratiche che sembrano sbagliate, credo che si possa dire quanto segue:
Intanto il caso del mafioso (una vita intera di prevaricazione sugli altri, non rinnegata) sembra comunque più grave del caso di un malato in condizioni estreme (che decide, per quanto consapevolmente, comunque in stato di difficoltà e sofferenza). Il “principio non negoziabile” da salvaguardare, quindi, mi sembrerebbe essere – se vogliamo fare una scala di valori – prima quello del “no alla mafia” e poi quello del “no all´eutanasia”.
Ma soprattutto: nel caso di Welby, celebrare il funerale non avrebbe significato immediatamente una legittimazione, anzi. Una volta espresso fin troppo chiaramente il “no all´eutanasia” della chiesa, il rito (certo, se fatto senza simboli politici e ostentazioni) avrebbe significato: “c´è un perdono che va oltre i nostri peccati”. Siamo deboli, ma Dio è più grande. La salvezza di Cristo avrebbe comunque vinto e la chiesa avrebbe riassorbito in sé il mondo.
In questo caso, al contrario, mi sembra che ciò che emerge è un assorbimento della chiesa da parte di quello che si pone come un potere arrogante. Welby esprimeva un “non poter fare altrimenti”, “non ce la faccio”. Qui si esprime un “faccio come mi pare, sempre e comunque”. Insomma, nell´evento di ieri la chiesa risulta asservita a chi, “dopo aver conquistato Roma, ora si conquista il paradiso”.
Infine, secondo me è significativo che la chiesa mantenga un principio di “moderazione” (c´è differenza tra rito religioso e spazio civile, possiamo arrivare fino a qui ma non oltre, etc…) su alcune questioni (attinenti la “natura”), piuttosto che su altre (attinenti la “vita in società”). Al proposito ho scritto qualcosa nel volumetto “Umanesimo profetico. La complicata relazione tra cattolicesimo e cultura” (Ed. San Paolo 2015, per chi ha voglia…).
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