Agamben, la biopolitica e la chiesa

Interrogato dal Manifesto il 17 marzo del 2008, Giorgio Agamben ha parlato della «sfida filosofica» lanciata dal pontificato di Benedetto XVI sui principi dell’organizzazione della società: «Occorre a questo proposito chiarire un equivoco della tradizione laica» – ha detto. «Il vero problema non è che la Chiesa intervenga nella vita pubblica, ma che lo faccia troppo poco, e che si sia per così dire specializzata nella tutela della vita biologica e della famiglia (due cose, fra l’altro, che secondo la tradizione cristiana delle origini il cristiano deve essere pronto a sacrificare senza riserve). Invece di indignarsi perché il papa interviene nella sfera pubblica – cosa che è suo dovere fare –, gli si deve chiedere perché non prende posizione con la stessa energia per le infamie quotidiane, le guerre, le ingiustizie, la miseria, per le quali si limita a delle dichiarazioni generiche. È significativo che proprio quando lo Stato ha abbandonato la dimensione politica per la biopolitica, anche la Chiesa sembri voler limitare l’esercizio del potere spirituale alla sfera biologica.»

Ci sembra opportuno dare risalto a questo spunto. Ma anziché soffermarci sull’aspetto della critica ad una visione della laicità di stampo ottocentesco – certo interessante, ma anche scontato in un pensatore non banale come Agamben – il nostro intervento intende riprendere la critica alla tendenza della Chiesa a «limitare l’esercizio del potere spirituale alla sfera biologica», e proporre una osservazione che cerchi di tener conto sino in fondo della radicalità sia del pensiero di Agamben, che delle posizioni «biopolitiche» della Chiesa.

Agamben vede nella biopolitica la questione fondamentale della politica in generale. È nell’opera intitolata Homo sacer che la sua proposta teorica viene delineata in modo più sistematico. Nell’antica Roma l’espressione homo sacer designava colui che, colpevole di un delitto tale da mettere a rischio la pace tra dei e uomini su cui si fondava la città, non poteva essere sacrificato secondo il rito, perché la sua punizione spettava solo agli dei, e tuttavia poteva essere ucciso impunemente, perché si era posto al di fuori della comunità. Homo sacer è quindi per Agamben il paradigma dello «stato di eccezione», in cui vi sono dei casi che esulano dalla legge (non sacrificabilità) e che sono perciò sottoposti immediatamente al potere sovrano, che in quanto sovraordinato rispetto alla legge stessa è arbitrario (uccidibilità). La prestazione costitutiva del potere sovrano è allora la produzione di «nuda vita», ossia di vita spogliata di ogni caratteristica qualificante in termini sociali.

In questa visione, il «sacro», ed in particolare la sacertà della nuda vita, non rappresentano un valore assoluto e superiore rispetto al politico, come nella comprensione ordinaria del termine, ma sono anzitutto indici di un paradosso: una trascendenza rispetto alla legge significa infatti anche un abbandono, anzi un vero e proprio «bando» da parte della legge stessa; significa non tanto un ambito a cui conformarsi (non sacrificabilità), ma una terra di nessuno esposta all’arbitrio (uccidibilità). Indipendentemente dalla correttezza di tale etimologia del «sacro» viene messo così in luce un cortocircuito teorico che è estendibile anche all’idea del diritto naturale o del bene oggettivo o di ogni valore assoluto pre-politico: chi decide cosa è oggettivo e/o naturale? Come individuare un ambito pre-politico, se l’uomo è costitutivamente «animale politico», ossia esprime opinioni aventi validità solo soggettiva? Come dare valore pubblico agli assoluti trascendenti i singoli altrimenti che con il consenso?

Che le osservazioni di Agamben siano tutt’altro che infondate viene confermato da una circostanza che sovente si riscontra nei dibattiti di biopolitica e che – anche se sinora sembra non essere stata rilevata – ripete il doppio vincolo di homo sacer tra fatto e diritto: si tratta della tendenza a tentare vie giuridiche che, pur tenendo fermo un principio, ammettano tuttavia nella pratica un comportamento che lo nega. Si pensi alla recente proposta di moratoria sull’aborto, o alle legislazioni che sostengono la personalità giuridica dell’embrione e/o del feto, o il diritto alla vita del nascituro, e consentono tuttavia l’interruzione di gravidanza; o che vietano esplicitamente l’aborto, che viene però depenalizzato. I nascituri sono sovente uccidibili, ma non sacrificabili secondo la legge; e lo stesso dicasi per i morienti. Mentre le «moratorie» cercano di invertire in modo speculare la situazione. Il rapporto tra la politica e ciò che la precede e su cui sempre già deve intervenire – la «nuda vita» dequalificata di caratteri sociali e perciò pre-politica – è per sua natura paradossale: la nuda vita rappresenta un permanente stato di eccezione.

Ma allora, proprio a partire dall’ambiguità innestata dal rapporto tra politica e vita, e riconosciutane la ricaduta effettiva nelle difficoltà giuridiche di cui si è detto, sembra possibile chiedere ad Agamben se le critiche esposte al Manifesto non si indirizzino solamente alla dottrina del diritto naturale o a quella del bene oggettivo, piuttosto che alle posizioni della Chiesa tout court. Non è forse possibile ritenere, proprio a partire dal suo paradigma teorico, che la vita non qualificata socialmente ma meramente biologica – i casi dei nascituri e dei morienti – rappresenti oggi il terreno principale su cui si gioca la resistenza alla strategia biopolitica del potere sovrano? L’attenzione particolare conferita dalla Chiesa alla vita biologica può essere chiarita quindi anche proprio come resistenza alle pratiche di potere biopolitico, e non come una ripetizione di esse. Più che come esercizio di un «potere spirituale» – e al di là degli strumentari concettuali cui talora si affida – la Chiesa concepisce infatti tale impegno in termini di un’azione liberante da vincoli e logiche opprimenti e di potere, sia esso spirituale o materiale.

(Testo del 2008 tratto ancora dal portale “Benecomune” )

2 risposte a "Agamben, la biopolitica e la chiesa"

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  1. Su questo post (“Agamben, la biopolitica e la Chiesa”, 2008) vorrei porre due questioni ad Estragone, che in effetti non riguardano direttamente la provocazione di Agamben:

    1. Uno snodo importante dell’argomentazione di Tommasi è che la Chiesa non si occupa di biopolitica come fa lo Stato e quindi non va criticata di fare biopolitica con gli argomenti che vengono abitualmente utilizzati nella critica diretta allo Stato che si occupa di biopolitica. Per distinguere l’attività biopolitica della Chiesa rispetto a quella dello Stato bisogna assumere che l’attività biopolitica della Chiesa non sia normativa. Ma anche se fosse così ufficialmente, l’intervento della Chiesa in materia è di fatto parzialmente normativo – almeno se accettiamo che una norma sociale possa avere maggiore impatto di una norma giuridica. La Chiesa (cattolica) non è un’assemblea di opinionisti che danno direttive del tutto orientative. Che piaccia o meno, essa ha (e spesso rivendica!) prerogative organizzative (non giuridiche, va bene, ma sociali sì) e funzione di guida (qui persino del giuridico!). Per cui è importante non deresponsabilizzarla e riconoscere la sua ingerenza normativa nella biopolitica. Ecco perché non sono d’accordo con la seguente conclusione di Tommasi: “L’attenzione particolare conferita dalla Chiesa alla vita biologica può essere chiarita quindi anche proprio come resistenza alle pratiche di potere biopolitico, e non come una ripetizione di esse”. Una cosa è dire che la Chiesa faccia un’altra biopolitica rispetto allo Stato – ognuno la sua – altra cosa è parlare di “resistenza al potere biopolitico” e di “un’azione liberante da vincoli e logiche opprimenti e di potere”. Se davvero fosse così, avremmo dovuto sentire i vescovi richiedere una sostanziale deregolamentazione di tutto quanto riguarda la biopolitica; invece vengono richieste, auspicate, stimolate semplicemente altre regole, spesso in competizione diretta con quanto ha deciso lo Stato. Questo è fare biopolitica con le stesse modalità dello Stato!

    2. Nonostante Tommasi sembri essere critico nei confronti della categoria del pre-politico, alla fine assume come pacifico che quando si parla di pre-politico si intende la “nuda vita”, per esempio del nascituro e del morituro (senza precisare criteri di distinzione per queste due ultime figure). Fermo restando che, in generale, sarebbe secondo me da distinguere un pre-politico sociale da un pre-politico pre-sociale (perché la politica ha un livello di organizzazione più alto di quello della società; ma questo è solo un dettaglio) – resta per me difficile parlare di “nuda vita”: di cosa si tratta? Qualcuno me lo spiega? Ma se me lo spiega, non sta già connotando la nuda vita come non nuda? Non è un cavillo logico che pongo, ma una vera questione. D’altronde, la lingua ce lo dice: “nascituro” e “morituro” provengono dal participio futuro latino (lo stesso che ha permesso di coniare la parola “natura”…); si tratta cioè di proiezioni, ovvero di persone immaginarie. E cosa c’è di più sociale e insieme politico dell’immaginario e delle sue persone?

    Ecco, questi sono i due sassolini che spero Estragone saprà togliere dallo stivale per poter avanzare nel suo splendido viaggio.
    Firmato: Sagredo

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    1. Grazie mille!

      Ad primum: sono d accordo. In realtà nel post – che è vecchiotto e riflette posizioni un po´ acerbe – pensavo di sostenere che la chiesa difende posizioni che vanno sovente anche nella direzione cercata da Agamben: ossia di resistenza da parte della “nuda vita” alle pratiche di iscrizione nel politico e dunque di controllo da parte del potere. Dire che “sulla vita non si vota” è dire che c´è un ambito sottratto al politico. Anche questa è “biopolitica”? Sì, certo, nel senso per cui – come diceva Schmitt – ogni decisione, anche la decisione su cosa è impolitico, è sempre già una decisione politica. Però – detto grossolanamente – è diverso dire che su un qualcosa si può votare a favore o contro, o dire che qualcosa è sottratto di principio al campo del politico. Poi, nel corso degli anni, il mio scetticismo sulla possibilità del “prepolitico” è andata sempre più aumentando, sino alla completa rinuncia alla praticabilità dell´idea. Resta però la questione che, da quel punto di vista, Agamben e la chiesa difendono una idea che ha tratti di somiglianza, che in un caso è la “nuda vita” e nell´altro è la “natura”. Entrambe le idee – pensavo in parte già allora e direi con più decisione oggi – hanno un forte tratto di ingenuità.

      Ad secundum: la questione, se possibile, è ancora più grande e complessa. Come accennavo nella conclusione del primo punto, sono sostanzialmente d´accordo con le osservazioni. “Nuda vita” nella lettura di Agamben significa la vita nel suo senso privo di qualsiasi qualificazione o connotazione. È figura speculare a quella del “duplice corpo” del re. Come il potere ha due corpi, biologici e sovrano, così chi recepisce/subisce il potere ha due corpi, uno “catturato” in ambito politico e l´altro prepolitico (il nascere, riprodursi e morire: processi in cui il potere cerca di entrare, ma che tradizionalmente sono sottratti al potere). Così, il nascituro e il morituro sono due figure di confine. Tuttavia, come dicevo nella conclusione del punto primo: non possono essere figure sottratte alla politica, così come la nuda vita stessa ha un senso solo come ideale regolativo. La questione vera – direi oggi – è dare cittadinanza piena a queste figure di confine, permettere che accedano ad identità liberate e non siano iscritte in processi di consumo e di sfruttamento.

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