Ma poi, che roba è la religione?

Questo blog si occupa di religione. Tutti più o meno abbiamo un’idea di cosa sia una religione. Ma se poi ci chiedono di darne una definizione, iniziano i problemi. Che cos’è la religione?

La questione ha un interesse teorico e un interesse pratico. Da un punto di vista teorico, tutte le discipline che si occupano di religione non possono prescindere da un’idea del loro oggetto di riferimento, anche solo per delimitare il proprio ambito e capire cosa deve essere di loro pertinenza. Cosa rientra allora nella filosofia/storia/sociologia/psicologia etc. della religione? Cosa possiamo considerare parte dei cosidetti religious studies e delle “scienze religiose”? Una prima e generica comprensione dell’oggetto viene dal linguaggio ordinario: tuttavia, la scienza – che per principio deve essere normativa e lavorare con concetti univoci – non può accontentarsi della vaghezza della comprensione comune. Il sapere specialistico nasce proprio dalla messa in questione dei presupposti ingenui. Si può però ragionevolmente obiettare che queste domande sono astratte, e riguardano quei pochi che hanno la perversione di porsele.

Ma il problema possiede anche ricadute pratiche. Anzitutto politiche, sociali e giuridiche, visto che le leggi normano quello che riconoscono come “religione” con una serie di prerogative o di vincoli: dalla possibilità di accesso a finanziamenti pubblici, al divieto di ostentazione di simboli, etc… Evidentemente, devo avere una definizione per decidere cosa includere o escludere. Perché concedo lo status di “religione” ad una certo raggruppamento organizzato di persone (le chiese cristiane, o la comunità ebraica), ma non ad altre (ad esempio i satanisti, o Scientology, o la massoneria)? Perché, di conseguenza, qualifico poi alcune festività come “religiose” o alcuni luoghi come “di culto” e attribuisco loro alcune garanzie di legge?

Così come la domanda teorica riceve una risposta dal linguaggio comune, anche rispetto alle questioni politiche sembra presentarsi una soluzione basata sulla prassi comunemente accettata. Non sembra necessario, nemmeno rispetto ai problemi concreti, definire la religione. A livello pubblico è plausibile accettare come “religione” tutto quello che, a partire da una prima comprensione media del significato del termine, non contrasta con l’ordinamento e dunque non turba l’ordine pubblico.

Rispetto a ciò, vale tuttavia notare come lo stesso ordine pubblico sia storicamente relativo – e una analisi di ciò che si intende ad esempio con “comune senso del pudore” lo mostra immediatamente. Inoltre, alcuni casi empirici potrebbero mostrarci come forse non saremmo tutti completamente soddisfatti delle possibili conseguenze di una tale posizione. Come comportarsi, ad esempio, se chiedesse di essere contemplata tra i gruppi che possono usufruire dell’ “otto per mille” la cosiddetta “religione Jedi”? Sembra che questa “chiesa” – qui la loro pagina – possa contare su quattrocentomila adepti in Gran Bretagna, quindicimila nella Repubblica Ceca e costituisca il credo dichiarato dall’1,5% della popolazione neozelandese. E i numeri, tra l’altro, sono probabilmente destinati a crescere con l’uscita dei prossimi episodi della saga di Guerre Stellari. Si tratta di un “culto” che non turba minimamente l’ordine pubblico ed è pervaso da valori solo positivi. Su questa scia, cosa accadrebbe se la richiesta di essere riconosciuti come “chiesa” pervenisse da altri gruppi organizzati, come ad esempio quelli la cui vera e propria liturgia domenicale recita: «dimmi cos’è, che ci fa sentire uniti anche se non ci conosciamo … dimmi chi è, che mi fa sentire importante anche se non conto niente» (circa ventiseimila “praticanti” – secondo i dati recenti – non destinati a calare nemmeno di fronte a ripetuti e protratti deludenti risultati)?

Gli esempi – volutamente estremi e quasi provocatori – mirano a far emergere un punto: ogni definizione della religione include od esclude inevitabilmente fenomeni che, in base al nostro senso comune, saremmo portati a non voler forse includere od escludere. Se ad esempio ritengo che si possa definire come “religione” tutto ciò in cui si professa una fede in esseri soprannaturali, dovrò includere tra le “religioni” – con le necessarie conseguenze politiche e giuridiche – il New Age, i culti neopagani della Wicca, o il satanismo; ma probabilmente non potrò includere buddismo, taoismo, confucianesimo e giainismo. Se invece assumo come religione ciò che possiede un culto, una ritualità, o dà senso all’esistenza, dovrò includere molti fan-club di rock star, allo stesso modo in cui nel medioevo l’epicureismo era considerato una vera e propria “secta” al pari di ebraismo ed Islam; nonché, secondo la descrizione di Walter Benjamin, sarò costretto a considerare “religione” anche il capitalismo e la società consumistica. In base a tale definizione, poi, dovrò escludere forse le “religioni” di Grecia e Roma antiche, in cui molto accentuato appariva l’elemento strumentale e politico, e poco rilevante il rapporto con la vita personale del singolo, che anzi entra in contatto con le divinità in modo sovente insensato e tragico.

Se altrimenti faccio riferimento alla sfera “spirituale” come categoria a sé stante e separata dal “materiale”, non mi pongo in condizione di comprendere a pieno i contesti orientali di impostazione olistica, in cui ciò che noi chiamiamo “medicina” e “religione” costituiscono spesso un ambito unitario. Con l’idea di “spiritualità” non riesco nemmeno ad affrontare molti fenomeni della galassia di ecologismo e animalismo radicale: il fruttarismo, ad esempio, le cui prescrizione alimentari sono da alcuni ritenute fondate nella vita edenica descritta nel Libro della Genesi, o il crudismo, o l’ipotesi di Gaia. L’idea di spiritualità non è adatta nemmeno per la terminologia in tutto e per tutto religiosa assunta dai tentativi radicalmente secolarizzanti e ultramoderni, come le “chiese” (le virgolette sono di citazione letterale e non di enfasi) positiviste tutt’ora esistenti in Sudamerica, o le liturgie politiche dei regimi totalitari, con le loro filosofie (teologie?) della storia.

Si deve poi prestare attenzione al fatto che una definizione di religione che separi lo “spirituale” dal resto della vita sociale non è in grado probabilmente di  dar conto appieno della natura dell’ebraismo, in cui la “religione” si sovrappone al popolo, sino ad essere talora quasi privilegiata l’appartenenza etnica rispetto non solo alle credenze, ma anche alla ortoprassi e dunque ad eventuali conversioni, accettate ma non incentivate. Ma forse nemmeno parte dell’islamismo può essere ricondotto al mero aspetto “spirituale”, visto che ambito civile e religioso non sempre sono nettamente separati o comunque separati in un modo che appare consono ai criteri europei ed occidentali di tradizione fondamentalmente cristiana e illuministica.

La categoria di “religione” sembra quindi adattarsi anzitutto e quasi esclusivamente al contesto cristiano (o erede di quella tradizione), e non a caso è stato mostrato come si tratti di un prodotto storico di una vicenda pressoché interamente intra-cristiana e ancora più specificamente occidentale. Il concetto di “religione” è stato applicato poi universalmente, ma con evidenti problemi di “traduzione”. Non solo molte lingue non indoeuropee non possiedono un equivalente esatto del termine, ma anche nel greco antico, così come in sanscrito, sarebbe difficile trovarne un calco o fornirne una resa. La parola, inoltre, non compare evidentemente nelle scritture bibliche, per cui persino rispetto al cristianesimo il discorso “religioso” sembra essere frutto di una costruzione.

Il nome “religione” proviene da un contesto romano e dunque di lingua latina, e viene trasmesso al nuovo orizzonte cristiano, che ne farà progressivamente oggetto di sapere. Ciò avviene soprattutto in età moderna, allorquando si esaurisce il presupposto medievale del cristianesimo come vera philosophia e vera religio, e quella che prima era definita prevalentemente fides christiana viene ad essere una religio tra altre religiones. Il processo è frutto di una critica esterna al cristianesimo, ma anche e forse soprattutto esito di riflessione interna al cristianesimo stesso e risultato delle sue dispute teologiche; l’idea della “religione” possiede finalità ireniche oltre che critiche, come è chiaro nel percorso pratico e politico (cuius regio eius et religio), che si articola parallelamente alla riflessione teorica, si snoda principalmente lungo l’asse pubblico-privato e dà origine alla vicenda della secolarizzazione che arriva sino ad oggi.

“Religione” è dunque un termine che va relativizzato e contestualizzato, nello spazio e nel tempo,  Non ha significato univoco, non si riferisce ad una essenza o ad una natura ben definite, né possiede una gamma di caratteristiche chiuse. “Religione” indica piuttosto una serie di fenomeni che tra loro presentano alcune somiglianze vaghe. Se si osservano queste familiarità, alcune considerazioni possono sorprenderci; ma proprio perciò devono spingerci a riflettere. Dopo aver dunque posto le basi del problema, con questa pars destruens, in un prossimo testo tenterò anche di proporre una idea e una definizione di religione che funga da pars construens. Tenterò di rispondere alla domanda: «ma poi, che roba è la religione?».

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