Ho scritto tempo fa che è difficile definire la religione. Una serie di fenomeni possiedono alcune somiglianze, ma non si riesce ad individuare un tratto caratterizzante unico. Se le cose stanno così, è impossibile dire cosa è la religione? Forse no. Si può provare a partire proprio dalla difficoltà: il significato della religione va trovato in termini anzitutto “negativi”.
Per far ciò, mi servirò di una coppia di concetti filosofici: immanenza e trascendenza. L’immanenza indica la dimensione in cui ci si trova, un piano orizzontale, attingibile, disponibile, in cui non c’è passaggio ad una dimensione altra (immanenza: manere in = restare dentro). È l’ambito in cui ci si sente a casa, ci si muove comodamente e confidenzialmente, si è nel proprio elemento, nella propria – come si suole dire oggi – comfort zone. La trascendenza invece indica un passaggio (trans), lo spostarsi su di un orizzonte diverso, il superamento della dimensione ordinaria, l’apertura ad una alterità. La trascendenza descrive un passaggio, un movimento, una uscita dalla propria terra verso qualcosa di ignoto.
Si può definire “religione” tutto ciò a cui si attribuisce la capacità di trascendere: ossia di muoversi, iniziare un percorso, abbandonare le proprie certezze. È il movimento di Abramo che abbandona la propria terra, ma anche quello cantato da Pavese (“l’unica gioia al mondo è cominciare”) o da De Gregori (“uscire di casa quando viene la sera”). Anima, spirito, sacro, divinità, immateriale, infinito, assoluto, sensatezza etc. sono tutti termini connotati storicamente e culturalmente. Ma sono tutti termini che, pur facendo riferimento di volta in volta ad oggetti o fenomeni precisi, sembrano rimandare anzitutto a questa funzione: all’andare oltre. Al salto ad una dimensione diversa.
Religione è ciò che permette di sottrarsi all’ordinario e al quotidiano. Religione è dunque ciò verso cui ci si dirige, ciò a cui ci si lega (re-ligare). Ciò che muove. È il dio, l’idolo, l’impresa, la realtà a cui si votano e si consacrano le proprie forze. A livello descrittivo, assumere questa prospettiva permette di avere una definizione piuttosto ampia di religione, tale da includere pressoché tutti i fenomeni rapidamente menzionati nel post precedente: dal capitalismo alla musica rock, dal calcio al satanismo, dall’ebraismo all’islam al cristianesimo. È religione la meta verso cui si tende e che è capace di offrire senso.
Ma assumere questa prospettiva descrittiva molto ampia permette altresì di provare a pensare una funzione normativa per la religione. Se la religione intende situarsi sul piano della trascendenza e avere un senso “altro” rispetto alla dimensione ordinaria – all’immanenza – non può che essere la rivendicazione continua e costante della provvisorietà di ogni fondamento. Ossia dell’insufficienza di ogni religione stessa. Si tratta di sottolineare come ogni realtà o ogni ambito che si definisce trascendente, verso cui si tende, riceve tale funzione all’interno di una storia, di una cultura, di un vissuto. La trascendenza non è mai assoluta, ma deriva sempre da un contesto e ad un contesto riconduce. È quindi sempre contaminata; e sempre si riferisce ad una immanenza. Il movimento di uscita, di ulteriorità, si esaurisce e si consuma una volta raggiunta la propria meta.
Proprio se vuole riferirsi alla trascendenza, la religione deve essere la costante e inesausta messa in discussione del comodo piano della quotidianità. Ecco il significato “negativo” della religione di cui si diceva in apertura. La trascendenza è una funzione solo negativa. In questo senso, la religione può rappresentare un’istanza etimologicamente “anarchica”: l’istanza cioè di relativizzazione di ogni ordine mondano ed immanente, e la capacità di definirlo come provvisorio. Già parlavo, rispetto al sacro, della necessità per la religione di essere un “punto irriducibile di contestazione”. La religione può quindi avere questa funzione “negativa”: si tratta di ribadire la finitezza e limitatezza di ogni ordine e quindi la sua insufficienza; non in virtù di una trascendenza afferabile – perché in quanto tale la trascendenza è inafferrabile. Non c’è altro, oltre la finitezza. Ma proprio in virtù della finitezza, si indica la necessità di una continua rimessa in discussione delle forme concrete e dei significati che adotta. Così, la religione può giocare costantemente una funzione “profanante”.
La religione è dunque tutto ciò che ci espropria dalle nostre certezze e dalle nostre sicurezze. Tutto ciò su cui non abbiamo potere. Ciò che non è in nostro potere, che non è nostro. È un contro-potere. Ma questo contro-potere non è solo un potere diverso e altro. È proprio, invece, altro e diverso dal potere. La religione non è un potere. È la logica altra e diversa da quella del potere. È ciò che non è potere. È espropriazione. La religione ci espropria il potere, costringendoci ad uscire da ciò che è in nostro potere e muovendoci ad un ordine che non è quello del potere. Una sorpresa, una malattia, una visita, un incontro, il lavoro, la responsabilità: la religione è la dinamica stessa della vita. Nascere è essere sottratti alla propria zona di comodità e potere per eccellenza, quella in cui non manca nulla. Morire è l’espropriazione di ogni potere. Vivere religiosamente significa non cercare di dominare la vita, le cose, gli eventi e gli altri, riconducendoli al proprio potere. Ma comprendere che è necessario un ordine diverso rispetto a quello del proprio potere. E che proprio in ciò che non è potere, posso salvarmi.
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