Nell’emergenza sanitaria, la religione sembra in affanno. “A fronte del coronavirus, le immagini religiose del mondo sono in ritirata” ha scritto qui Italo Testa. Ma anche Giorgio Agamben, in uno dei suoi recenti interventi ha detto che la chiesa, non più in grado di offrire risposte, ha ceduto il passo alla scienza.
La ritirata e l’assenza della religione: la chiusura delle chiese o la sospensione delle funzioni hanno provocato una ampia discussione (riassunta qui, e qui, e qui). Il problema è questo: se per la fede conta l’anima (Salus animarum suprema lex) i corpi sono in subordine. Ma sospendere le pratiche religiose mette in pericolo proprio la salute delle anime. Potius mori quam foedari era un principio dell’educazione religiosa: meglio morire piuttosto che macchiare l’anima. Eppure, in questa emergenza, provvedimenti di sospensione della legge religiosa sono stati ragionevolmente presi in molti contesti.
Il quadro è poi mutato almeno in parte, per la chiesa, con i gesti di Papa Francesco. Prima il pellegrinaggio a via del Corso a Roma, poi la cerimonia nella piazza San Pietro deserta, ora i riti di Pasqua. Curiosamente, se voci di ispirazione cristiana, come Adista, con questo articolo, hanno criticato il primo gesto, il Manifesto invece ha dato una lettura favorevole di Papa Francesco e della sua visione sociale dell’epidemia. Ma l’importanza di questi atti è stata rinvenuta soprattutto su di un piano simbolico, a volte persino estetico.
La questione tocca il cuore della religione. Cosa fa Dio di fronte alla sofferenza? Ecco la vecchia domanda della “teodicea” (=giustizia di Dio): se Dio c’è, perché il male? Come può Dio essere onnipotente e buono: non vuole o non può togliere il male? Una volta scartate le risposte non credibili, per cui Dio starebbe “punendo” o anche solo “insegnando”, i teologi si sono orientati nella direzione di criticare l’onnipotenza: con argomenti di filologia biblica, come Alberto Maria Maggi, qui, o con parole commoventi, come nell’articolo di James Martin. La religione assume un senso etico, nella compassione e nella testimonianza che si può dare di fronte alla sofferenza: come mostrato da questi esempi eroici.
Certamente non è credibile un’immagine di Dio antropomorfica: il Dio “con la barba” che ha sentimenti umani, può entrare in collera, punire, insegnare etc… Paolo Gamberini lo spiega molto bene in queste righe. Tuttavia, la religione non può essere solo un’etica, una politica o una estetica. Per testimonianze o simboli non è necessaria la religione. La peste di Camus insegna che l’ateismo può essere la base migliore per la giustizia e l’altruismo. Cantare sui balconi, leader carismatici, cerimonie e riti collettivi non hanno bisogno di Dio.
Se Dio c’è, deve essere più di un maestro, un testimone o un simbolo. Deve essere qualcuno a cui chiedere salvezza. Come pensare una potenza superiore, senza che sia troppo umana? Proprio l’esperienza della pandemia forse ci può orientare.
Anzitutto, considerare la vita un bene sommo toglie definitivamente la violenza dalla religione. Si supera finalmente quella impostazione per cui, in nome di una presunta verità, si poteva sacrificare la vita. Elevare la salute del corpo a bene intangibile libera da questa visione. Dio è vita. Ogni valore astratto o ideologia sono falsi idoli e non possono essere anteposti alla vita stessa.
Ma cos’è la vita? I biologi non sono concordi sulla definizione; proprio i virus sono un interessante caso limite, oggetto di discussione. “Vita” ha sicuramente un senso stretto, e riguarda alcuni organismi complessi dotati di alcune funzioni, Ma vivo è, in senso lato, anche ciò che pur inanimato, è prodotto di uno spirito: come le opere culturali (lo ha spiegato Luca Illetterati qui, riferendosi a Walter Benjamin). In senso ancora più ampio, “vivo” è tutto ciò che entra in qualche modo in relazione con l’uomo: monti, boschi, fiumi, etc… possono “nascere”, “crescere” e “morire”. Vivo è, da questo punto di vista, tutto ciò di cui si dà storia. Ossia vivo è tutto ciò che è sottoposto al tempo, e di cui l’uomo può narrare.
Seppur con gradazioni diverse, vita è quindi un concetto universale. Questo perché l’uomo può applicare i termini della vita a ciò che è sottoposto al tempo. Dunque, a tutto. Siamo – tutto è – dentro il tempo. Ma il tempo è un principio su cui non si ha dominio. Lo scorrere del tempo ci è indisponibile. Così, è anche della vita. La vita è una potenza che riceviamo. Il battito del cuore, paradigma della vita e ritmo che scandisce un tempo, o il respiro, sono segni efficaci di ciò: la vita non è in nostro potere. Siamo dentro la vita, non è la vita a essere dentro di noi.
Per altro verso, risulta impossibile intuire il tempo o la vita slegati dagli esseri. Vita è sempre vita “di” qualcuno o qualcosa. Il tempo, da solo, non è immaginabile e definibile. Pur come principi indisponibili che regolano e animano, il tempo e la vita sono legati inseparabilmente – in qualche modo sono “incatenati” – al mondo.
Si può pensare il rapporto con Dio a partire dalla vita?
Dio è inchiodato al mondo. Si è compromesso in modo indissolubile con il mondo. Tuttavia, non si riduce ad esso, anzi, ne è infinitamente diverso. Dio è infatti principio vivificante e strutturante, sorgente del mondo.
La sorgente non è diversa dall’acqua, ma non coincide con essa. La sua definizione la indica come “un punto”, a partire da cui acqua sotterranea sgorga e diviene visibile. Un punto non ha dimensioni, non è afferrabile. Ma ciò di cui è fatta la sorgente e che la qualifica è solo l’acqua. La vita che Dio dà al mondo è la sostanza di tutto, ma la vita di Dio non si esaurisce nel tutto. Tutto e niente, essere e nulla, sono anzi categorie umane, astrazioni mentali, basate su un criterio quantitativo. La vera contrapposizione è tra vita e morte. Dio è fons vitae, sorgente inesauribile della vita, e si individua nelle molteplici forme delle vite che si dipanano nel tempo.
Nel partecipare la vita, Dio rende a propria immagine il mondo. Dio pone il mondo in condizione di essere sorgente. L’indipendenza degli esseri del mondo non può significare separazione, che sarebbe assenza di vita. Ma nemmeno può significare unione confusa. Si tratta quindi di superare sia il dualismo tra Dio e il mondo, sia il monismo. Entrambe sono prospettive astratte e statiche.
Si può invece adottare una prospettiva dinamica. Una prospettiva viva: tanto più si diventa sé stessi nell’individuazione, ossia tanto più si realizza la propria unicità, tanto più si arriva a coincidere con Dio. In una unione che è comunione. Quanto più si scopre la propria natura unica, tanto più ci si apre e quindi si diventa sorgenti.
Dio è la vita del mondo. Nella misura in cui il mondo cerca separazione, cerca morte e quindi ferisce la vita del mondo. La ferita inferta alla vita del mondo segna tutto, così come un liquido inquinante si propaga in tutta l’acqua. Nella misura in cui si diviene sorgenti, si immette nuova acqua viva e limpida nel mondo.
La questione della “teodicea” è quindi male impostata. Viene intesa come una accusa o una difesa rivolta a Dio quale attore diverso dal mondo e implica la separazione, il dualismo. Tuttavia è possibile invocare Dio come potenza somma che trascende il mondo. Si può piangere e danzare con Dio: come quando si toccano le corde più profonde della vita. Come quando si arriva alla sorgente della vita.
[Questo testo è stato ripreso sul portale Vita.it: qui]
Splendido spunto, professore.
"Mi piace"Piace a 1 persona
Grazie, caro Francesco, per questo tuo contributo preciso e prezioso.
Che peraltro giunge a proposito, visto che la prospettiva pasquale, anche e volentieri indipendentemente da quel che si dice sui vari media, è l’occasione di ritrovare la centralità della figura di Cristo nel rapporto con Dio. Ed à proprio in Cristo che si stempera l’eventuale dualismo tra Dio e mondo, tra Dio e uomo terreno. E ha ragione Francesco, senza questo dualismo di base onnipotenza e bontà divine non sono più forieri di contraddizione.
L’idea con cui ripensare la questione della teodicea, ovvero “Dio come sorgente di vita” (sorgente inesauribile e invisible a cui fa eco l’unicità del farsi uomo dell’uomo – e di Dio) è eccellente se si accoglie la sfida di pensare una sorta di vitalismo divino al di qua delle pecche del monismo – e del panteismo, aggiungerei.
Ed è proprio su questa idea importante di “sorgente di vita” che pongo la mia questione: al di qua del monismo, l’idea di “sorgente” ha senso solo se è data la morte. Ovviamente la morte non considerata come qualcosa di contrapposta alla vita, ma consustanziale alla sua definizione. Si tratta di pensare vita e morte banalmente in una dialettica che sublimi il loro apparente dualismo.
Ma se così stanno le cose, alla non si può piangere e danzare con Dio senza riconoscere ed accettare la morte. Dunque non solo Dio è sorgente di vita ma è anche – sempre – abbraccio di morte. E pertanto, a maggior ragione, un virus non dovrebbe far scandalo. Detta così, può forse suonare indigesta, ma credo che solo in un’ottica non eternista è possible la comunione tra uomo e Dio come sorgente di vita, ovvero senza resistenza dei dualismi e dei monismi.
Quanto alla comunione “eterna”, è cosa su cui non saprei esprimermi. La comunione eterna è materia “genuinamente” non umana.
Un caro saluto,
Giuseppe
"Mi piace"Piace a 1 persona
Grazie di questo bellissimo e impegnativo commento. Sono d’accordo, credo, in parte. Ossia: penso che si possa distinguere la morte nel senso di inaridimento che consegue alla separazione, all’inquinare la sorgente (=l’inferno, una vita autoriferita). E invece la morte come termine mero della vita, che è, come dici giustamente tu, parte della vita stessa e da non temere. Se è vera l’idea paradossale che, nella dinamica della vita, quanto più si realizza la propria individualità, tanto più si entra in comunione con Dio, la fine della vita visibile può ben significare la continuazione della comunione su di un piano più profondo
"Mi piace""Mi piace"